martedì 18 novembre 2014

Il morbo di Alois A.


Cammina piano, dondolandosi. Ciabatte nei piedi e una camicia aperta e sporca di caffè. Lei  gli viene incontro per la strada, camminando leggera nonostante il peso e l’età. Vestita con una camiciola stampata e scarpe basse,  come solo la fretta ti lascia fare, senza tempo per lo specchio o il pettine.
  Lui con i passi di chi non sa dove va ma si porta nella mente una lucina, la certezza che la persona di cui non ricorda il nome è la sua salvezza.  Chiede da dove arriva, dice che era da solo ed è uscito a cercarla. Con le mani in avanti, un po’ cercando altre mani, un po’ per mantenere l’equilibrio. Gli occhi persi per metà in quelli di lei, per metà nell’aria.
   Lei risponde paziente: “Te l’avevo detto che uscivo e tornavo in fretta. Dovevi aspettarmi.”
   “Ma tu non c’eri” dice lui con ostinazione.
   E la donna, con quell’amore infinito che non si distrugge nemmeno nei tempi peggiori, lo prende sotto braccio e dice: “Andiamo a casa”.

   Si allontanano così, attaccati. Passano al mio fianco, lasciando dietro di se l’essenza stessa della sofferenza, l’odore di clausura e di zuppa, il profumo amaro che fissano le pastiglie sulle mani. L’alito dell’amore che viaggia in una sola direzione. Delle emozioni confuse che vivono in un altro universo ma non per quello meno intense.  

  Cerco d’ immaginare, perchè so già della vita di altri, il principio di tutto. Lui, che non ha mai dimenticato niente, perde ricordi goccia dopo goccia. Lui, pacato e silenzioso, che la insulta a spintoni. Che un giorno, seduto sul divano, decide di morsicarsi i polpastrelli delle dita fino a farli sanguinare.  Ma non è l’inizio della fine. E’ l’inizio di una nuova vita.


  Li guardo mentre girano l’angolo. E penso che essere coraggiosi non è quello che vogliono raccontarci, ma questo.  La difficoltà non è nel poter essere liberi.  La scelta più coraggiosa, quella più difficile, è restare.

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